IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha  emesso la seguente ordinanza, nel procedimento n. 184/93 g.i.p.
 e n. 676/92 p.m. a carico di Bardi Guido, Meneghelli Eugenio,  Musini
 Giuliano,  Bersani  Isnardo, Tessadori Mario, Capra Massimo, Trevisan
 Adelchi, Trabucchi Costantino, Croci Piero e Zilli Giovanni.
   Il p.m. chiedeva il rinvio a giudizio degli imputati specificati in
 epigrafe per i reati di cui agli articoli: 61 n. 7, 110, 112 n.    1,
 323, secondo comma cod. pen., e 640-bis cod. pen.
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'   premesso,   questo  giudice  ripropone  anche  nel  presente
 procedimento  (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal   combinato
 disposto  dagli  artt.    23 legge 11 marzo 1953 n. 87 e 159 c.p.) la
 questione (gia' sollevata d'ufficio nel procedimento penale n. 255/95
 g.i.p. e n. 625/1994 p.m. in data 16  aprile  1996)  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.    323,  secondo  comma,  c.p.  perche'  in
 contrasto con gli artt. 25, secondo comma e 97, primo comma, Cost.
   Esaminando innanzitutto il primo profilo, l'art. 323, secondo comma
 c.p. (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323,  primo  comma
 c.p.    che   prevede,   secondo   l'orientamento   giurisprudenziale
 prevalente, una autonoma ipotesi di reato) non  pare  rispettare  uno
 degli  aspetti  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art. 25,
 secondo comma, Cost.  e cioe' quello della tassativita' e sufficiente
 determinatezza della fattispecie  incriminatrice;  si  tratta  di  un
 aspetto  che,  come e' noto, tende a salvaguardare i cittadini contro
 eventuali abusi del potere giudiziario, a  restringere  i  poteri  di
 interpretazione del giudice.
   Non  si  intende  certo  mettere in discussione che nella redazione
 delle  fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa   fare
 riferimento ad elementi normativi e non solo descrittivi.
   Si  vuole  invece  evidenziare  che  l'art.  323  c.p.  incentra la
 condotta esclusivamente sull'abuso d'ufficio  rinviando  all'elemento
 soggettivo (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche',  come  autorevole  dottrina ha osservato, l'abuso e' una
 figura che non possiede, di per se stessa,  connotati  oggettivamente
 verificabili,  essendo  il risultato di un giudizio che si esprime su
 un comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha  ispirato;
 si  e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico, di
 una locuzione indeterminata, di un termine neutro, incolore.
   La norma, allora, si presta a  facili  manipolazioni  e  ad  essere
 applicata   a   qualsiasi   forma   di  vizio-irregolarita'  di  tipo
 amministrativo (che possono essere legati alle ragioni piu'  varie  e
 differenti   dalla   commissione   di   un   reato);   ne   consegue,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice  fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe certamente
 riduttivo  prospettarsi  la  questione  guardando   all'epilogo   del
 processo)  ha  ancora  osservato  autorevole  dottrina che il giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notizia  criminis
 allorche'  e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una sommaria
 valutazione, corrisponda nella sua materialita'  ad  una  ipotesi  di
 reato.
   Orbene,  in  relazione all'art. 323 c.p., il carattere neutro della
 condotta rende poco agevole la sussunzione  nell'ambito  della  norma
 dei  comportamenti  piu' vari che possono essere sottoposti al vaglio
 del giudice.
   Ne consegue il fondato  rischio  che,  in  concreto,  l'inizio  del
 procedimento  possa  precedere l'accertamento di una notitia criminis
 ed essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi,  a
 verificare  se  nella  situazione  in esame ci sia effettivamente una
 tale notitia.
   Va  poi  evidenziato  che,  come  emerge  dai lavori preparatori il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare i comportamenti lesivi dei beni da tutelare  nella  p.a.;
 senonche'  in  tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro che la
 formulazione  attuale  dell'art.  323  c.p.  fu   dettata   anche   e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso  e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico si
 anticipava la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri  di
 eccessiva indulgenza").
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se  si  considera  che  la norma viene ad assumere un ruolo cardine e
 centrale nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la  funzione
 sussidiaria  dell'originario  abuso innominato; ha inglobato (e si e'
 parlato di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per  distrazione,
 l'interesse  privato  in  atti d'ufficio, l'abuso innominato; e tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad avviso di questo giudice, inoltre,  non  si  puo'  ritenere  che
 l'art.  323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza del
 dolo specifico; si tratta, come  e'  noto,  di  uno  degli  argomenti
 centrali  con  il  quale nella ormai datata sentenza n. 7/65 la Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione  alla  vecchia  fattispecie di abuso innominato. Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce  maggiore  tassativita' attraverso il mero dolo specifico;
 in  proposito   non   va   trascurato   che   nella   interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 suprema  Corte  ha  posto un freno a tale orientamento), la prova del
 dolo  specifico  viene  tratta  spesso  dalla   mera   illegittimita'
 dell'atto e del comportamento:  l'elemento soggettivo diviene un mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,  va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi   la
 questione   guardando  solo  al  risultato  finale  del  procedimento
 (l'applicazione "discrezionale" della norma di abuso ai fini  di  una
 eventuale  condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre invece considerare quella che una  autorevole  dottrina  ha
 definito  una invadenza giudiziale "primaria", che si esprime, di per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In  questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua   insufficiente
 determinatezza   costituisce   una   facile   chiave   di  accesso  a
 disposizione del giudice penale per penetrare  nel  territorio  della
 p.a.  ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art. 323 c.p. costituisce allora "una spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amministratore piu' onesto.
   Tutto  cio'  compromette  seriamente "il buon andamento della p.a."
 voluto dall'art. 97 Cost.: da un  lato  perche'  .....  consente  con
 facilita' incursioni giudiziali in una normativamente riservata sfera
 di valutazione discrezionale della p.a.; dall'altro perche' genera un
 clima non favorevole alla serenita' della attivita' amministrativa ed
 una  situazione  quindi,  come pure si e' detto in dottrina, che puo'
 stimolare l'immobilismo, favorire mancanza  di  iniziativa,  seminare
 preoccupazioni anche fra gli amministratori piu' onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione  amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato, adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente l'art. 323 c.p. pare minare proprio quel  bene  che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
   La   questione,   che   si   solleva  di  ufficio,  oltre  che  non
 manifestamente infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per  la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.